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Intervista per il Corriere Musicale

Musica Come Arte Divulgativa è il titolo dell'intervista con Monika Prusak per il Corriere Musicale.


Che cosa vuol dire per Lei comporre musica? «La risposta più immediata potrebbe essere “non lo so”. Il non sapere per quale ragione si compone musica determina un certo fascino, anche per se stessi. In realtà per me comporre musica significa attendere: prima della composizione vera e propria c’è un processo di ricerca istintiva che chiamerei ironicamente “smanettamento”, un termine che ho preso dal mondo dei computer e dalla musica elettronica, in cui “smanettare” significa provare e riprovare, cercare e ricercare, quindi attendere che accada qualcosa. Ecco perché il compositore è una persona che attende. Ma si tratta di un’attesa attiva, non passiva. Lo dico sempre ai miei studenti: “il nostro dio musicale è lo smanettamento”. Nella mia esperienza la composizione è anche una sorta di prolungamento del gioco infantile, perché quando siamo bambini la curiosità innata ci porta a inventare delle cose. È come avere dei kit di costruzione tipo il Lego classic: la fantasia ci fa costruire dei mondi, come se ci trovassimo in una sorta d’infanzia matura che arriva dopo l’infanzia vera e propria».


Qual è il ruolo del compositore oggi? «Mi verrebbe da dire che il compositore non ha nessun ruolo sociale, nel senso che non ha molta influenza sulla società che lo circonda. Ha influenza chi si occupa di economia o di cemento, ma anche chi crea film popolari. Purtroppo il termine “utilità” è sempre più inteso come soddisfacimento immediato di necessità fisiche basilari, ma c’è da dire che la presunta inutilità della musica è anche il suo punto di forza, perché la bellezza è una forma di inutilità. Ricordiamoci che il grado di salute di una nazione si manifesta attraverso la quantità di cose “inutili” che vi si trovano. Più sono, meglio è. Perciò mi conforto pensando che tanta gente si abbandoni alle fantasie sonore, cioè a un’utilissima inutilità».

In quali circostanze ha deciso di intraprendere la strada della musica e della composizione? «Non è stata una decisione, quantomeno all’inizio. Da bambino avevo pochi giocattoli per cui le cose a volte me le producevo da solo attraverso il disegno. A un certo punto non so perché, probabilmente avevo visto qualcosa in TV o in qualche rivista, ho cominciato a disegnare continuamente strumenti musicali inesistenti o quasi, note musicali improbabili eccetera. Allora i miei hanno capito che avrei potuto fare qualcosa in quell’ambito e mi trovarono un maestro di musica. La decisione vera e propria, invece, è subentrata durante l’adolescenza. Non provenendo da una famiglia particolarmente benestante, ero naturalmente predisposto a privarmi di alcune cose come certe uscite con gli amici. Quando rinunci spontaneamente a qualcosa per pagarti delle lezioni di musica e metti da parte i soldi per acquistare partiture, allora significa che il mondo dei suoni potrebbe diventare la tua strada».


Qual è stata ed è la sua ispirazione? «La mia ispirazione attuale è una creare una musica d’arte divulgativa. Mi piace prendere spunti dalla musica classica, dal pop, dall’elettronica underground, dal kitsch eccetera. Insomma vorrei comporre musica post-classica con influssi popolari dei tempi recenti. Un’altra mia ispirazione è la modernità in divenire. Picasso diceva che ci vuole molto tempo per diventare giovani; ciò significa che il senso di modernità, di giovinezza e di rinnovamento estetico, non è qualcosa che si genera da sé, ma una condizione che ti devi saper conquistare anche con la maturità. Spesso siamo legati a un’idea statica e irreale di modernità, esempio: da ragazzini siamo rimasti stregati ascoltando una composizione, qualche esperto ci ha raccontato che quella era musica moderna e vent’anni dopo continuiamo a credere che il concetto di modernità si basi ancora sui criteri stilistici di quella composizione, in realtà nel frattempo è successo di tutto. Inoltre tendiamo a dare un valore maggiore alle estetiche musicali che ci hanno colpito da giovanissimi. Anche nel mondo del pop e del rock c’è chi è abituato a ritenere che la musica “migliore” sia quella dei suoi tempi. Oggi si produce una marea di banalità, ma a volte etichettiamo come banale o scontato ciò che in realtà non conosciamo bene. Quando invece ci addentriamo in una nuova forma espressiva più nel dettaglio, ci accorgiamo che probabilmente ci sono delle ragioni che le danno un senso artistico. Ecco, a me piacerebbe continuare a conservare sempre questa idea di modernità reale e dinamica legata alla curiosità, perché considero la curiosità un elemento fondamentale: cominciamo a invecchiare nel momento in cui la perdiamo».


Qual è stato il ruolo dei suoi maestri? «Da ragazzino desideravo studiare con qualcuno che avesse anche un’esperienza diretta come compositore. Nella mia provincia la situazione era piuttosto arida da questo punto di vista. Con mille problemi di carattere economico ho studiato a Palermo con Eliodoro Sollima e tempo dopo a Roma con Aldo Clementi, entrambi bravissimi docenti. La mia formazione è stata “settecentesca” sotto il profilo dell’apprendistato: studiare un po’ qua un po’ là, facendo anche il mendicante di lezioni in un certo senso. Un’altra persona fondamentale è stata Azio Corghi; non è stato un mio maestro ma certi scambi a distanza con lui mi sono serviti per approfondire il legame col rigore artigianale e la tradizione. A Città di Castello ho frequentato i corsi di perfezionamento con Salvatore Sciarrino, dove ho conosciuto colleghi che stimo e che hanno fatto carriera. Alessandro Cipriani è stato particolarmente importante sul fronte della Musica elettronica, un gentiluomo che ha saputo trasmettermi la giusta libertà. Sono stato anche molto autonomo, perché ho avuto la capacità di acchiappare al volo i consigli e le suggestioni e poi fare il resto da me. Questa autonomia si è sviluppata perché ho vissuto in una terra un po’ più disagiata».


Dopo un periodo legato alle avanguardie del secondo Novecento, ha deciso di volgersi verso una nuova corrente che definisci post-classicismo. Quali sono state le motivazioni di questo cambiamento? «Il cambiamento è avvenuto nel momento in cui ho percepito che il mondo della musica contemporanea stava mutando. Ho avvertito, inoltre, un desiderio irrefrenabile di poter comunicare anche a chi non è esperto, di parlare ai non addetti ai lavori. Non sono convinto che gli esperti di nuova musica siano i primi a cui destinare le nostre idee, anzi qualche volta il loro influsso può divenire controproducente, e lo dico da esperto [ride]. Molti festival musicali selezionano soltanto opere contemporanee che possiedono un’ambiguità estrema o il senso di decadenza. Non ho nulla di personale contro queste caratteristiche, io stesso le ho praticate. Si scrivono opere decadenti validissime e provo una grande stima per chi le produce. Il problema è il pensiero unico, cioè credere che la musica contemporanea non debba uscire da determinati schemi espressivi. Inoltre ho la tendenza a deprimermi, perciò preferisco fuggire a gambe levate dalla decadenza. Magari mi limito a sentirla adoperare ad alcuni bravissimi amici e colleghi, che peraltro apprezzo tanto».


Qual è il ruolo del pubblico oggi? «Gli ascoltatori della musica d’arte di oggi sono gli esperti, ma anche quelli che chiamerei “turisti musicali”, che di solito è gente curiosa e sveglia. I turisti sono quelli che si recano in un luogo e se gli va bene dicono “che bello!” ma poi non ci vivrebbero mai stabilmente. Molta musica contemporanea è spesso un territorio turistico: il pubblico curioso e inesperto ne percepisce la qualità ma se ne appassiona raramente».


Il suo luogo di nascita ha influito in qualche modo sul tuo percorso? «Ha influito negativamente creando degli ostacoli, nel senso che ho dovuto faticare di più rispetto a un musicista che vive a Parigi o in un’altra metropoli. Tuttora so bene che se avessi certe cittadinanze all’estero la mia vita musicale sarebbe più fortunata. Riguardo alla creazione di una propria poetica musicale, invece, oggi non c’è grande differenza tra nascere in Sicilia o altrove, perché siamo ormai l’Occidente globalizzato e viviamo i social, un non-luogo dove ci piovono addosso una marea d’informazioni contemporaneamente da migliaia di location sparse per il mondo. Possiamo vedere/ascoltare robe del passato in qualsiasi momento e da qualsiasi posto, perciò vi è la presenza di moltissime “mode” che condividono lo stesso tempo, come non è mai avvenuto prima d’ora. La conseguenza più fascinosa di tutto ciò è che on line abbiamo la libertà di esprimerci musicalmente come caspita ci pare».


Qual è il suo rapporto con la didattica della composizione? «Insegno Composizione elettroacustica in Conservatorio. La musica elettronica di oggi è una porta aperta. Tempo fa era un’arte legata soprattutto a suggestioni timbriche e dinamiche, ma successivamente ha dato vita a una grande varietà di stili: experimental techno, drum and bass, glitch, dubstep, alcune espressioni del genere modern classical eccetera. Questi e altri linguaggi sono un buon pretesto per mettere in campo didatticamente il ritmo periodico, le note e l’armonia, cioè parametri che il mondo della musica elettronica accademica del passato aveva messo un po’ da parte. Cerco di essere aperto a trecentosessanta gradi con i miei studenti, che sono tipi piuttosto alternativi (freak, nerd eccetera) e ascoltano di tutto. Mi piace dare ma anche ricevere suggestioni, essere rigoroso e libero al tempo stesso. Non è facile raggiungere questo equilibrio, ci vuole grande curiosità e voglia costante di rinnovarsi».


Qual è il ruolo delle istituzioni? «Il ruolo delle istituzioni è fondamentale. Viviamo in un paese con mille problemi ma che possiamo considerare un paradiso per quel che riguarda l’arte. Ogni dieci volte che ci lamentiamo dell’Italia, almeno una volta dobbiamo riservarla a un elogio. Abbiamo la fortuna di avere le associazioni concertistiche, i conservatori di musica, uno Stato che sovvenziona l’arte e le istituzioni fondamentali per il progresso culturale. Tutto questo è da migliorare ma meraviglioso».


In una delle sue famose trasmissioni – C’è musica e musica – Luciano Berio chiese ai suoi ospiti: “Perché la musica?”. Vale la pena scrivere ancora? È valida la distinzione secondo la quale esistono solo due tipi di musica, quella buona e quella cattiva? «Riguardo alle motivazioni dello scrivere musica, ritorniamo alla domanda iniziale: non lo so, appunto. Non è una cosa che si sceglie o si decide. Non ci chiediamo neanche il perché e se vale la pena scrivere, lo facciamo d’istinto. Non pensiamo che facendo questo salviamo la vita a qualcuno. Il mondo può fare a meno di noi. Certo, uno può anche fare l’artista solo per atteggiarsi e trovare una dimensione, in tal caso meglio lasciar perdere. Nel mondo del pop sono di più quelli che scendono in pista per alimentare un narcisismo patologico, ad alcuni di loro non importa nulla della musica, l’importante è emergere. Perciò, dato che il rapporto tra musica pop e colta è sempre più paritario, la distinzione tra musica buona e cattiva diventa ogni giorno più importante».


Per concludere vorrei chiederle della sua ultima composizione il Concerto per pianoforte e orchestra eseguito in prima mondiale l’anno scorso a Padova. Qual è la tua idea di pianoforte come strumento solista? È possibile scrivere oggi per pianoforte in un modo nuovo rispetto al passato? «Per quanto riguarda la mia idea del pianoforte come strumento solista, fino a qualche anno fa ritenevo che la musica di Liszt, Chopin, Rachmaninov e compagni avesse già esaurito l’argomento. È stata Giulia [Giulia Gangi, pianista, ndr], mia moglie, a convincermi a intraprendere questa strada. Sul fatto di scrivere in un modo diverso rispetto al passato, il pianoforte mi è servito per entrare in questa fase recente che chiamo “post-classica” perché è lo strumento che ha saputo trasmettermi un certo equilibrio tra passato e presente. Comporre musica post-classica significa agganciarsi al tempo presente con lo sguardo rivolto alla musica classica, cioè a quella musica che non è mai invecchiata e che può essere apertamente rievocata con figure retoriche, caratteri, forme eccetera. Inoltre col pianoforte ho proseguito un certo percorso “essenzialista”, a tal proposito un mio riferimento costante sono i Tori di Picasso. Picasso disegnò dodici tori, i più complessi sono collocati in alto, ma via via che si scende diventano sempre più essenziali, fino ad arrivare all’ultimo disegno che rappresenta la pura essenza del toro. Ecco, anch’io mentre scrivo parto da idee più complesse e poi vado togliendo del materiale sonoro, e quando lo tolgo mi chiedo sempre se c’è ancora qualcosa da scartare. A volte ho proprio bisogno di arrivare all’essenza di qualcosa. Probabilmente ciò è legato al mio carattere: non amo girare attorno alle cose, voglio arrivare dritto al punto… spero di averlo fatto anche in questa intervista».

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