Oggi come ieri, in alcuni ambienti d’arte visiva e sonora vige un comprensibile timore per le derive kitsch, ovvero per quelle espressioni estetiche traboccanti, senza ambiguità e con caratteri sentimentali. Il kitsch più autentico si esprime attraverso statuette religiose, giocattoli appariscenti, alcuni diari per teenagers, molte pop song, la maggior parte degli oggetti augurali e molto altro.
Ho cominciato a nutrire curiosità per questo argomento perché mi suscita sentimenti divergenti, a seconda dei casi: imbarazzo, rifiuto, più raramente nostalgia o una strana sensazione di conforto. Ma la storia ci insegna che a volte l’arte si fa recandosi nelle “aree interdette” per trarne ispirazione. È accaduto per esempio a Jeff Koons, artista visivo che propone opere d'ispirazione kitsch.
Tulips di Jeff Koons
Nei mercati d’arte tedeschi del secondo Ottocento, l’aggettivo “kitsch” era adoperato per indicare cianfrusaglie non artistiche e di poco conto. Tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, il termine cominciò a circolare anche in ambito musicale, essendo adoperato in senso dispregiativo da Theodor Adorno che lo identificava con la musica di consumo. Lui e altri intellettuali stavano assistendo impotenti al crescente potere delle canzoni d’intrattenimento, vendute come si farebbe con un pacchetto di sigarette o uno shampoo. Ciò portò molti musicisti e accademici a un ragionevole indurimento verso il mondo sonoro consumistico, su cui posero un velo di rassegnata circospezione. Tra intrattenimento e arte si instaurò così una distanza sempre maggiore.
Tuttavia, ben prima dell’industrializzazione capillare del pop, vari compositori consideravano l’intrattenimento come parte del proprio mestiere, scrivendo per feste pubbliche e private, oltre che per raffinati intenditori. Tra Settecento e Ottocento gli operisti più fortunati cominciarono a comporre arie d’opera che toccavano vari strati sociali. Certo, tra i compositori potevano sussistere intenti molto differenti: Johann Sebastian Bach e Domenico Scarlatti possedevano divergenze stilistiche e ideologiche notevoli, lo stesso dicasi per Beethoven e Bellini o per Schoenberg e Puccini. Eppure questi nomi si trovano da sempre collocati nello stesso itinerario storico. A quanto pare, è stata la mano totalizzante del capitalismo novecentesco a contribuire all’allontanamento tra mainstream e offstream.
Oggi la concezione di “musica d’arte” ha subito radicali cambiamenti rispetto ai tempi di Adorno, nel bene e nel male. Il tempo purifica, trasforma le tragedie in semplici aneddoti e ci permette di guardare agli eventi passati con maggior distacco o tolleranza. Capita dunque che il “proibito” diventi prima o poi oggetto di curiosità (come è accaduto al sottoscritto), perciò lavorare su brandelli di kitsch significa attuare una sfida, addentrarsi nelle zone off-limits, giocare superando ipotetici ostacoli. Ciò può comportare dei rischi di estremismo estetico, infatti negli ultimi anni abbondano i casi di kitsch sonoro puro spacciati per musica classica, privi di qualsiasi tentativo di ricerca.
Essendo un’espressione primariamente popolare, il kitsch è comunque inevitabile. I suoi influssi potrebbero annidarsi ovunque, perché la natura ci porta a imbrigliarci nelle espressioni degli affetti espliciti, anche contro la nostra volontà. È difficile trovare adulti che non abbiano avuto quindici anni, ed è altrettanto difficile che a quell’età costoro non abbiano provato emozioni sotto la spinta di una vibrante pop song che resterà ancorata nella memoria anche dopo ottant’anni: una ventosa kitsch non facile da strappare, anche se si è diventati artisti avveduti.
Mi sono più volte chiesto se in periodi antecedenti al diciannovesimo secolo vi fossero espressioni vagamente paragonabili all’odierno kitsch e ho tentato qualche risposta. Esempio: l’estetica barocca fu inizialmente contrastata perché gli antichi detentori del buon gusto trovavano detestabili le sue espressioni, tipo stanze decorate con intarsi dorati e dipinti di angioletti immersi tra nuvoloni. Pensiamo inoltre alla moda ampollosa nella corte di Luigi XIV, il Re Sole. Il suo musico Jean Baptiste Lully scriveva brani che parevano cuciti addosso a quel mondo sgargiante: ritmi danzanti, solennità pompose e celebrative accompagnavano vistosi parrucconi e tinte accese. Non parliamo poi del melodramma, sulle cui multiformi declinazioni si può dire tutto e il contrario di tutto.
Ritratto di Luigi XIV
Alla luce di queste e altre riflessioni, col trascorrere degli anni ho avuto la crescente consapevolezza di possedere una certa percentuale di cultura sentimentalista esplicita. Ci avrò pensato in uno di quei momenti in cui si avverte la necessità di un cambiamento, rimanendo però decisi a non mentire a sé stessi. A volte fare arte significa lasciare che accada ciò che deve accadere. Non c’è sfida più difficile che mischiare il mainstream con l’arte musicale scritta in partitura. In tal modo il compositore può illudersi di rievocare (nella sua nicchia) lo status antecedente alla mercificazione sonora estrema, quello dei tempi di Rossini o Puccini che scrivevano musica divulgativa senza però travestirsi da venditori porta a porta di riff creati distrattamente o di ritmi per adolescenti annoiati. Se ricicli il kitsch, se lo rimaneggi o lo sposti verso altre traiettorie, lanciandogli uno sguardo di complicità, stai creando l’arte Camp che è stata lucidamente delineata da Susan Sontag nel suo saggio Notes on Camp del 1964.
Oggi il Camp è l’uso consapevole e artistico del kitsch. Per Susan Sontag è una delle tre principali sensibilità creative, le altre due sono quella moralistica e gli stati emotivi estremi. La sensibilità moralistica è fatta di opere che giungono a noi filtrate dalla storia e il cui valore è ritenuto indiscutibile. Gli stati emotivi estremi appartengono invece a quelle forme artistiche della sperimentazione radicale che nel Novecento sono state identificate col termine “avanguardie”.
Il Camp invece è una pulsione creativa estetizzante. Ne scrivo perché sento di appartenervi in una certa misura, perciò ho cercato di indagarla meglio. I suoi elementi sono teatralità, urgenza espressiva, artificio; ma anche simmetria ed esagerazione a diversi gradi. Proprio ora, mentre scrivo, produrre arte Camp in contesti di musica filo-accademica è l’impresa più difficile in assoluto, perché le prime due sensibilità creative appena citate (moralistica ed estrema) sono già consolidate, ufficializzate in un certo senso. Il Camp è invece un cane sciolto, difatti il verbo “to camp” sta per “accamparsi” e rivela un carattere transitorio, come se essere eccessivo e artificioso contribuisse a renderlo artisticamente isolato, senza una dimora fissa.
Susan Sontag
Per le ragioni appena elencate, è difficile che il Camp possa manifestarsi in un pensiero conservatore, anche quando evoca l’eredità del passato. L’accampamento, per sua natura, non reclama una lunga conservazione nel tempo. Inoltre “to camp” non indica soltanto l’accamparsi, ma pure la seduzione attraverso i manierismi, includendo quelli autentici, privi di forzature, adoperati da artisti che hanno evocato la loro tradizione senza dare l’idea del copia-incolla.
Creare musica post-classica, per esempio, significa agganciarsi ai manierismi dei classici, sfruttare la loro retorica. Si tratta di quella musica che suona “classica” (notare le virgolette) ma non lo è affatto, perciò potrebbe nascere da inclinazioni tutt’altro che reazionarie. Il post-classico ha una probabilità maggiore di divenire Camp poiché guardare indietro, creare musiche lanciando uno sguardo compiaciuto alla retorica della tradizione, è percepibile come un artificio, e il Camp è fatto di artificiosità. Esso è inoltre “un’arte che si propone come seria ma che non può essere presa del tutto sul serio perché è eccessiva”, scrive Susan Sontag. In realtà il Camp continuerà a ricordarci che nessuna arte può prendersi sul serio al cento per cento. “L’arte è sempre stata ruffiana”, diceva Carmelo Bene. Il Camp è come un depresso cronico che tenta di mitigare i propri miseri stati con delle iperbole, lanciando suggestioni anche ai non esperti di contesti creativi. Nel suo ambito la parola “arte” concede ampio spazio ai termini strettamente relativi: artigianato, artificio, artefatto eccetera.
Quelle che ancor oggi chiamiamo “avanguardie” predicarono a ragion veduta l’importanza dell’ambiguità in musica. Il Camp invece riduce il livello di ambiguità e diventa esplicito. Le sue formule sono scoperte, non consentono di mentire o di essere troppo equivoci. L’ambiguità dà mistero a un'idea musicale, ma è pure un fattore di occultamento che può rendere le idee meno trasparenti. Perciò “l’accamparsi” consiste nell'ampliare lo svelamento, la concisione e il pragmatismo. Chi è accampato ha poco tempo a disposizione nel suo circondario. Come nella forma-canzone, deve dire tutto in modo concentrato e magari simmetrico, non può concedersi il lusso delle parentesi.
Il Camp ante litteram di Carlo Crivelli - dettaglio da Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Paolo, Ansovino e Gerolamo
È ovvio che pure il termine Camp, come tante altre definizioni, ha modificato il suo significato nel tempo. Sessant’anni fa era indicato come “espressione gay”, definizione che oggi suona problematica per mille ragioni, in primis per il tentativo di separare categorie sessuali in base a sensibilità che invece sono del tutto trasversali. È tuttavia comprensibile come la visione stereotipata del “mondo gay” degli anni Sessanta abbia contribuito a generare certe dubbie affermazioni. Alcune sfumature sulla definizione di Camp derivate dal passato vanno pertanto riviste alla luce degli odierni risvolti socio-linguistici.
Vincenzo Bellini
Per Susan Sontag si trovano tracce di Camp nelle opere di Pontormo e Rosso Fiorentino, ma le più evidenti manifestazioni si hanno in Carlo Crivelli, Antoni Gaudì, Giovan Battista Pergolesi, Vincenzo Bellini, Samuel Barber e in alcuni lavori di Giuseppe Verdi, per citarne solo alcuni.
Concludendo, fino a questo momento il Camp non è stato identificato come genere ma come sensibilità, perciò può infiltrarsi in qualsiasi ambito artistico. Ho citato esempi di compositori classici, ma nel mondo della pop music questa attitudine ha spadroneggiato, anche se in atteggiamenti o caratteri visivi, non soltanto musicali: Queen, ABBA, David Bowie, Lady Gaga e simili. In ambito strettamente visivo e contemporaneo, parlerei della moda di Jean-Paul Gaultier e Jeremy Scott o dell’arte del già citato Jeff Koons.
Avere l’istinto ‘accampato’ significa mostrare la propria essenza manieristico-sentimentale-vivace, cioè quegli stati espressivi verso cui il mondo accademico più introverso sembra mostrare maggiore reticenza, forse perché sono più tollerabili a posteriori, ovvero con la patina del tempo (si veda la già citata estetica barocca). Ovviamente anche chi possiede l’impulso Camp deve attendere che tra un’idea e l’altra arrivi un moto d’ingegno; smodato, retrò o eccessivo non è molto rilevante, l’importante è che abbia qualche zona di verità, rivelando la propria urgenza comunicativa.
Emanuele Casale
Le Creazioni di Jean-Paul Gaultier: tradizione e influssi Camp
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